Spazio e tempo… Come lo colleziona lo spazio uno come me che è pressoché immobile? E cosa me ne faccio del tempo dal momento che ne ho così tanto da poterlo sprecare inutilmente?
La mia performance è cominciata subito. Entro con difficoltà nella Fondazione AlbumArte. Subito tre scalini. In salita. Impossibile che non torni in mente un altro ingresso. Caro e difficile nel ricordo. Come lo era nella realtà. Piccolo, stretto e scale a precipizio. Pericoloso: nomen omen. Intuisco presto che dovrò entrare immediatamente in un gioco di dialettica tra dentro e fuori.
Così è. Scopro che non era quello ingresso originario e ho guardato quei tre scalini anche con astio: perché lo avete sostituito? Solo per indispettirmi credo. Le tracce della vecchia soglia – limiti accuratamente evidenziati su un muro apparentemente integro – mi sono state rivelate. Impercettibili. Ci vuole una luce particolare. Bisogna osservare bene. Ma lì sta ancora. In silenzio. Ha terminato il proprio lavoro e si è ritirata ad osservare passaggi da spettatrice privilegiata. E un po’ mi sembra anche contenta di rivivere nell’immaginazione di chi oggi può osservare la sua vita precedente.
La dialettica si arricchisce anche di verticalità. Non più un dentro/fuori ma anche alto/basso. C’è una scala particolare; a castello si chiama. È una scala importante quindi; come tutti i castelli. Non ho fiori con me. Tranne me. Non mi posso arrampicare in alto, così Mu mi accompagna per mano concettualmente verso il soffitto. Provo ad immaginare come ci si senta lassù: coperti credo. Posso toccare la pioggia ma ne sono al riparo. Incredibile il senso di protezione che ti dà un soffitto. Anche se non lo tocchi e lo immagini solamente.
Uomo alla finestra mi hanno chiamato. Ed è lì che poi mi hanno portato: in finestra. Posso vedere un grande albero illuminato. La vista è sicuramente migliore di quella che mi ha accompagnato nell’ultimo anno e mezzo: un palo della luce ed un’antenna tv. Ho dedicato loro anche due poesie. Ambigue le finestre. Ti offrono una vista sul mondo. Partecipi a ciò che accade pur restando al sicuro nelle quattro mura di casa. Bisogna stare bene attenti però; se puoi osservare, puoi essere a tua volta osservato.
Mi siedo, incuriosito, vicino ad una bimba. Lei alla mia sinistra. Alla mia destra invece un bimbo si nasconde in un caminetto. Che ci fate qui? Lui non parla. Parlano i suoi occhi però. Mi vuol conoscere. L’ho capito subito. Lei guida le danze. È un peccato che ci siano sempre meno camini nelle case. Il calore che viene dal fuoco. Un grande dono di Prometeo all’uomo a cui voleva bene più che a se stesso. Lo scrisse anche Lord Byron: “Thy Godlike crime was to be kind”. Chiacchieriamo un po’. Ci piacciamo; è evidente. Ho la loro fiducia. Mi mostrano il fuoco. Vuoi vederlo ancora una volta? Gli sono simpatico. Me lo mostrano per la seconda volta. Me ne vado soddisfatto. Ho saputo che ad altri non l’hanno fatto vedere neanche una volta. Ho la certezza di avere due amici in più. Anche questo è calore in fondo.
Un volto simpatico mi chiama. È appoggiato sulle scale. Mi chiede aiuto. Mi è subito chiaro che è un po’ malridotto. Credo che anche a lui sia subito chiaro questo di me. Mi sistemo vicino a lui. Sulle scale; ancora. Ci diamo una mano. C’è complicità. Parliamo di gradini e di verticalità. Sembra una terapia di gruppo. La stessa paura condivisa devo dire fa meno paura. Conveniamo che importante è affrontarla. E poi c’è il tempo. Il tempo è signore. Ci convinciamo che è un agente buono. La sua azione tende a sfumare e limare tutte le spigolosità degli eventi. Spigolosità che comunque non possiamo evitare. Mi torna in mente una poesia che pressappoco fa così: “Le scale sono muri con brividi”. Saluto il mio nuovo amico e me ne vado pensando ai brividi. Che siano necessari per sentirsi vivi?
Sono stanco. Ho camminato molto. La donna seduta sul letto se ne accorge e mi invita a riposarmi un po’. Mi sdraio completamente. Che sollievo. Lo senti il rumore che viene dalle cantine? La senti l’acqua che scorre? Avvicino l’orecchio ma non colgo. Eppure mi convinco dell’esistenza di un fiumiciattolo sotterraneo. Ora devo scendere in profondità. Ciò che è nascosto sotto di noi non mi tranquillizza affatto. Dove poggia quello spazio è un mistero. Non ricordo poi come siamo arrivati a parlare di tram e di binari. Ma ricordo bene di averle regalato due parole a me molto care: materia e memoria. Sono sicuro che quella donna qualcosa se ne farà.
Riprendo il mio cammino e mi dirigo verso una sala che mi costringe ad abbassarmi. Con sguardo truce mi impongono il silenzio. Sì perché gli spazi si devono anche ascoltare. Ahimè, non sono riuscito a stare fermo chinato e il gracidare ferraglioso delle mie stampelle mi rovinava l’ascolto. L’esercizio, apparentemente semplice, è quello che mi ha creato più problemi. Ma forse è proprio così che dev’essere: ascoltare con attenzione costa fatica. Esco dalla sala con quest’illuminazione di cui farò tesoro.
Si conclude così il mio viaggio sensoriale. Subito la domanda mi si forma nella mente: ma l’ho vissuta o l’ho subita quest’architettura? Immediatamente non so rispondere; più in là mi sarà più chiaro. Gioco un po’ tra me e me su ciò che ho vissuto. Penso alle scale soprattutto. Mi chiedo, come si è chiesto Tibor Fischer: “Perché sopportare la verticalità quando si può stare benissimo in posizione orizzontale?”. Mi pare una bella domanda. Per raggiungere un luogo ricco di senso, gli risponderebbe Wittgenstein. Bisogna salire la scala (con gran fatica certo) e poi gettarla. Indietro non si torna.
Me ne vado via così; con qualche risposta ma con molte domande in più di quando sono entrato. Emozionato di sicuro; felice di essere riuscito a collezionare un po’ di spazio e, la cosa più importante, di non aver sprecato tempo.
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Chiara Mu
From Here To Eternity
Fondazione AlbumArte, Roma