Trascinare i propri occhi

La memoria è una forma di attenzione. È uno stato dell’attenzione, un esercizio, una disciplina: è una scoperta del potere della mente umana di rivolgersi al passato come un oggetto, di trascinare i propri occhi su un oggetto che ha cessato di essere presente.1

Se è vero che la natura è un tempio, come sostenuto da Baudelaire, e l’essere umano è natura, allora si può dire che l’essere umano è un tempio. Tempio = Monumento. Dal latino “monere”: ammonire, esortare, avvisare, ricordare. Architettura eretta a memoria tangibile. Non è azzardato affermare allora che l’uomo stesso è un monumento alla memoria: è spazio di apprendimento, contemplazione e connessione con la sua essenza profonda. È un luogo in cui possiamo ritirarci e da cui possiamo ripartire per ampliare la nostra percezione e aprire la mente a nuove conoscenze ed esperienze. È il tempio in cui dobbiamo recarci per raggiungere la conoscenza di verità fondamentali.

Un tempio che si presenta nudo, come nuda si presenta la verità; che si svela così com’è, senza artifici, dissimulazioni o ornamenti inutili e dove al suo interno le leggi immutabili della fisica si manifestano chiaramente. Che ricorda che la verità esiste indipendentemente dalle nostre percezioni o convinzioni personali e mostra che la realtà oggettiva è presente e accessibile a patto di avere la capacità di osservarla attentamente. Tuttavia, come ogni monumento, ammonisce che l’essere umano è soggetto alla natura mutevole del tempo. È vulnerabile all’oblio e alla corruzione. Come un tempio in rovina, la memoria umana può sbiadire, le verità fondamentali possono essere distorte e le connessioni con l’essenza profonda possono venir meno.

Lo strumento prediletto del tempio è la fotografia in bianco e nero. Anche la fotografia – come la verità – è nuda. Proprio per sottolineare la simbiosi tra oggetto e soggetto. L’attenzione è sullo spazio. Il tempo è quello che è già stato. Ma non c’è nostalgia. Nessun grido di dolore dai luoghi in rovina o abbandonati. Ci sono solo domande: sulla fragilità della memoria e la fugacità della vita. C’è, nelle fotografie di Veronica, come un invito a risolvere il paradosso creato dall’evidente contrasto tra l’effimero e la persistenza: difficile se non impossibile. Come Roland Barthes siamo costretti a trascinare gli occhi su qualcosa che è presente ma che ha già cessato di esistere. Il tempio di Veronica c’è e non c’è più al tempo stesso.

A noi resta solo il profumo di fiori selvatici oggi probabilmente secchi.

Massimo Rosa
Wild Flowers di Veronica Mecchia
Remèdes Galerie di Parigi

 

  1. Roland Barthes, La camera chiara: nota sulla fotografia. Edizione Einaudi, 1980. ↩︎

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